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domenica 3 luglio 2016

FOÀ, Mosè Beniamino

(Reggio Emilia 1729 - ivi 1821) libraio. Compì numerosi viaggi d'affari in Europa. Nel 1765 si recò ad Augusta, Francoforte, Amsterdam. Nel 1769 fu in Svizzera, Francia, Fiandre ed Inghilterra. Le lettere scritte da Parigi e Londra rivelano l'interesse con cui era seguito il suo viaggio, che probabilmente aveva anche carattere ufficiale in quanto egli rappresentava anche la Biblioteca ducale.

DBI


L. Padoa, Una lettera di M.BFe l'opera di Moisè Formiggini nell'età napoleonica per un rinnovamento dell'educazione ebraica, in ContributiRivista della Biblioteca municipale di Reggio Emilia, II (1978), 3, pp. 71-77.

MEDICI, Luigi de’

(Napoli 1759 - Madrid 1830) Dopo gli studi compiuti presso l'Accademia reale di Torino viaggiò per alcuni anni in vari stati europei. Nel 1778 arrivò a Parigi dove ammirò il sistema politico ed istituzionale. Divenuto nel 1791 reggente della Gran Corte di Vicaria a Napoli, attuò riforme sulla scia di quelle parigine, quali l'utilizzo di cartelli toponomastici, la numerazione delle case, la pubblica illuminazione.
Nel 1811 fu confinato a Londra. Nel 1814 fu al Congresso di Vienna come rappresentante della monarchia borbonica. Nel 1830 seguì il re Francesco I in Spagna in occasione del matrimonio della principessa Maria Cristina con il re di Spagna Ferdinando VII, dove morì.

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CARPANI, Francesco Maria

(Milano 1705c - Milano 1777) Svolse viaggi in Italia e all'estero. Affiliato ad una loggia massonica milanese, tra il 1756 e il 1758 fu a Vienna a cercare sostegno per alcune riforme sociali ed economiche.

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BIANCHI, Giovanni (Jano Planco)

(Rimini 1693 - ) medico e naturalista. Viaggiò in Italia, visitando Venezia, Verona, Brescia, Milano (1723), Roma, Napoli (1725-6), Firenze, Pisa (1727), di nuovo la Toscana (1735), le città venete (1740). I viaggi sono descritti nei diari di viaggio conservati presso la Biblioteca Gambalunga di Rimini.

DBI

BALUGANI, Luigi

(Bologna 1737 - Gondar - Etiopia 1771) architetto e disegnatore. Nel 1765 fu ingaggiato dal console generale britannico ad Algeri, James Bruce, per accompagnarlo in qualità di disegnatore nei suoi viaggi. Insieme visitarono Siria, Libano, Palestina, Tunisi, Libia e Algeria.
Molte notizie sui viaggi si trovano nelle lettere a Girolamo Ranuzzi, pubblicate da Chiovenda.
Nel 1768 partirono nuovamente, questa volta con l'intenzione di trovare le sorgenti del Nilo. Il programma del viaggio è illustrato in una lettera al fratello Filippo, datata 15 marzo 1769. Si imbarcarono a Kosseir, sul Mar Rosso, e giunsero a Massaua il 19 settembre 1769, e di lì proseguirono per l'Abissinia. Dopo aver attraversato il Tigrè, il Beghemeder e il Lasta, giunsero a Gondar il 14 febbraio 1770. Ne ripartirono il 4 novembre diretti alle sorgenti del Nilo Azzurro. Tornati a Gondar, Balugani fu colpito da una forte dissenteria che lo portò alla morte nei primi di maggio del 1771. Sulla sua morte gravarono numerosi dubbi, alimentati dalla personalità complessa del Bruce. I suoi disegni furono completati da altri artisti ingaggiati dal Bruce.
Balugani fu inoltre l'autore del diario del viaggio in Etiopia.

Lettere manoscritte nell'Archivio della Accademia di Belle Arti di Bologna e Parma, all'Archiginnasio di Bologna e nell'archivio dei conti Ranuzzi.
I viaggi furono descritti da J. Bruce in Travels to discover the Source of the Nile in the Years 1768, 1769, 1770, 1771, 1772 and 1773 (Edinburgh 1790).
E. Chiovenda ha pubblicato i Documenti relativi a James Bruce e Luigi Balugani che visitarono l'Etiopia nel 1769-1772, in Atti d. R. Accademia d'Italia, s. 7, II (1941), pp. 439-496.

DBI

Travels, vol. 1
Travels, vol. 2

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PINI, Alessandro





. – Nacque a Firenze il 3 maggio 1653, da Bartolomeo e da una Vittoria di cui non si conosce il cognome.
Apprese i primi rudimenti con il sacerdote Giovanbattista Fantaccini e a dieci anni (1663) frequentò la scuola pubblica dei gesuiti insieme al fratello Federigo (il quale divenne poi cappuccino con il nome di fra Bernardo). A sedici anni (1669) iniziò gli studi universitari alla Sapienza di Pisa e dopo dieci anni, nel 1679, divenne dottore in filosofia e medicina.
In questo decennio desiderò estendere le sue conoscenze ben oltre il campo specifico del curriculum universitario e acquisì competenze in botanica e nell’ampio settore dell’erudizione antica.
Fece poi ritorno a Firenze, dove iniziò il tirocinio come medico insieme a Francesco Redi. Grazie a lui venne introdotto nell’ospedale di S. Maria Nuova, il cui rettore era monsignor Michele Mariani, che nutrì profonda stima e amicizia verso di lui. La carriera di Pini era quindi sicura ma, come spesso accade ai fervidi e curiosi intelletti, egli preferì seguire il suo amore per le scoperte e per i viaggi. Si imbarcò sopra le galere di Toscana comandate dal generale Camillo Guidi e giunse in Morea (toponimo veneziano medievale del Peloponneso).
Nel 1680 il padre, Bartolomeo, morì. A quella data, Alessandro si trovava verosimilmente a Firenze, giacché subito dopo il granduca Cosimo III de’ Medici lo inviò in Egitto per candire la cassia fresca, scoprire nuovi semplici e per altre segrete incombenze. Una lettera del 12 giugno 1681 (Alessandro Pini, 2004, pp. 127-135) contiene la descrizione accurata dello sviluppo dell’albero della cassia, corredata da preziose raffigurazioni eseguite a penna dallo stesso Pini, autore anche delle varie didascalie. Il procedimento di candire la cassia era però proibito in Oriente e Pini sapeva di dover svolgere un compito ‘trasgressivo’; coinvolse perciò un certo Domenico Cartieri per aiutarlo nella sua impresa. Anche se Pini si riferisce a Cartieri come un ‘turco rinnegato’, questi era ben lungi dall’essere un turco, ma bensì un collega toscano che fu, probabilmente anche all’estero, al servizio di Cosimo III. Nel momento in cui Pini e Cartieri si incontrarono in Egitto, quest’ultimo era al servizio del gran pasha d’Egitto come capo dei paggi. Sembra che Pini sia riuscito a ottenere il permesso di svolgere il suo lavoro con la cassia dopo aver visitato il gran visir Köprülü (chiamato Chiuperlì) Kara Mustafa e averlo guarito dalla sua trombosi (p. 7).
Durante il suo soggiorno egli vide tutto quanto poteva esser degno delle osservazioni di una persona colta: i monumenti, le iscrizioni, le monete e molto altro ancora e di essi tracciò disegni e descrizioni che non sono pervenuti, così come non giunsero mai a destinazione i vari manoscritti arabi di medicina e di matematica, e i molteplici reperti archeologici che aveva raccolto per implementare la collezione del granduca (pp. 159-168). Osservò le piramidi e le mummie (pp. 39-40, 122-126), ma l’acuto sguardo del medico indagò anche molteplici aspetti scientifici. Effettuò infatti anatomie di animali, specialmente di vipere, di scorpioni e di qualche tipo di serpente; analisi di varie tipologie botaniche (caffè, melone, abdelavi, fichi ecc.). Dimostrò di conoscere molte cose, effettuò misurazioni, raccolte e disegni di quanto passava sotto i suoi occhi o casualmente si imbatteva sul suo cammino. Talora rischiò anche la salute e addirittura la vita ma troppo profondo era il suo ardore per l’avventura e difficilmente riuscì a tenerlo a freno.
Durante il viaggio di ritorno in patria, Pini visitò varie città dell’Asia Minore (Gerusalemme, Damasco, Aleppo, Tripoli di Siria e molte altre ancora) e di esse ha lasciato un ricordo, seppur breve e conciso, nelle sue lettere (pp. 170-186).
Quelle città che possiedono una lunga storia, frutto di una stratificazione di civiltà e di domini, già agli occhi di Pini apparvero spesso un cumulo di ruderi che solo la sua fervida immaginazione e il suo sguardo colto potevano ricostruire nella loro magnificenza e beltà; le strutture dell’epoca imperiale erano state o abbattute o reimpiegate dai dominatori successivi ed esigui erano gli elementi che palesavano le antiche glorie.
Dopo aver soggiornato in Oriente, Pini tornò in Occidente e nel gennaio 1683 si trovava a Livorno nel Lazzeretto (lettera del 3 gennaio, Alessandro Pini, 2004, p. 187) e pregava Redi di inviargli del denaro per comprarsi vestiti. Il luogo apparve molto angusto e desolante a quegli occhi che avevan visto gli splendidi panorami dell’Africa e dell’Asia, che avevano ammirato l’alba e il crepuscolo in luoghi straordinari, che eran rimasti affascinati dal fasto delle corti orientali e dal fulgore di meraviglie naturali. L’amarezza del luogo venne esacerbata ancor più dalla delusione e dalla rabbia di non essere stato scelto dal granduca per la missione in Turchia e soprattutto a Kostantiniyye, e Pini maledì la sorte per essere giunto in ritardo quando venne a sapere che il granduca aveva inviato il medico Michelangelo Tilli.
Nella sua breve sosta in Toscana, voleva dedicarsi al riordino della congerie di carte e di appunti che aveva con sé e che contenevano solo una esigua parte di tutto ciò che aveva scritto durante i suoi viaggi e le sue visite, per poi redigere una relazione accurata e organica sulle esperienze vissute e le indagini effettuate. La sua naturale inquietudine non gli consentì tuttavia di svolgere una ricapitolazione efficace dei sentimenti, delle emozioni e del piacere intellettuale che percepì nella visione degli innumerevoli luoghi, degli oggetti e delle creature che furono davanti ai suoi curiosi e acuti occhi.
Una lettera del 22 dicembre 1683 (pp. 219-221) lo ritrae a Venezia, profondamente amareggiato per le calunnie a causa delle quali aveva perduto la protezione del granduca e di Redi. Nella Serenissima si fermò alcuni mesi e sempre sollecitato dal suo spirito avventuriero si imbarcò; il 26 aprile scrisse a Francesco Redi (pp. 234-246) che la nave sulla quale era medico d’armata sarebbe salpata il 2 maggio alla volta di Corfù per proseguire verso i Dardanelli.
Pini servì la Repubblica di Venezia con competenza e dedizione a tal punto da ottenere una casa e dei terreni in Napoli di Romania (oggi Nafplio in Grecia), una zona sotto il controllo della Serenissima. A Venezia entrò in contatto con il professore di anatomia Iacopo Grandi, il quale, sollecitato da una lettera di Pini intorno a questioni botaniche, redasse una erudita Risposta... sopra alcune richieste intorno a S. Maura e la Prevesa, stampata in Venezia nel 1686 in cui compare un’altra lettera di Pini scritta nel golfo di Corone il 15 novembre 1685 (pp. 136-155).
Fino al 1698, quando terminò la guerra di Morea nel Peloponneso meridionale, Pini continuò il suo lavoro di medico di armata; il capitano Alessandro Molino lo ebbe in grande stima e come premio per l’onorato servizio svolto gli concesse beni immobiliari in quella provincia. Negli anni 1699-1703 visse a Venezia, dove non è noto esattamente che mansioni svolgesse.
Nel 1703 l’ambasciatore veneziano a Kostantiniyye, Giulio Giustinian, lo nominò medico d’armata. Qui, il primo febbraio 1710, sposò la genovese Elena Masselini e insieme si stabilirono nel quartiere di Pera. Pini vi dimorò fino al 1715, quando si ritirò nella sua casa di Nafplio. Il fato poi gli fu avverso e la subitanea invasione delle truppe ottomane infranse il suo idillio; egli venne ridotto in schiavitù a Nafplio. Proprio quando i suoi familiari erano in procinto di versare la somma del riscatto (1717), la peste gli inflisse l’estremo colpo.
Morì nelle prigioni di Kostantiniyye, dove era stato trasferito, nel gennaio 1717.
Pini ebbe grande ampiezza di veduta, che gli permise di osservare, con notevole attenzione anche ai particolari, la realtà circostante nei vari luoghi dove nella sua vita si trovò a camminare e ad agire. Oltre che medico, fu un ottimo osservatore delle tradizioni e delle usanze dei popoli che visitò, caratteristica che si può ben riscontrare anche nelle lettere e nel De moribus Turcarum (pp. 253-289). In questo breve trattato in lingua latina, egli lumeggiò vari aspetti della vita sociale di quella popolazione, quali l’educazione dei fanciulli, la netta separazione tra persone di sesso diverso, la condanna dell’ozio, ma anche la notevole magnanimità verso i poveri e gli indigenti, le molteplici norme di condotta, le abitudini alimentari e altro ancora, fornendo per quanto possibile il termine turco corrispondente alla questione presa in considerazione. L’ampio respiro intellettuale con il quale Pini indagò il mondo circostante si nota non solo nelle descrizioni estetiche delle strutture architettoniche della città di Kostantiniyye ma anche nell’analisi delle tipologie patologiche ed endemiche e degli elementi naturali. La sua sensibilità si palesa nella trattazione demoscopica ed etnografica della popolazione con la quale ebbe occasione di vivere. Si appassionò inoltre all’indagine di tutti questi aspetti, che contribuiscono certamente a una più profonda comprensione della civiltà e degli sviluppi che essa ebbe nel corso dei secoli.
Opere. La quasi totalità del materiale da lui raccolto o composto è andato perduto. Si è conservato solo un piccolo nucleo di lettere (edite in Alessandro Pini, 2004), la descrizione della Grecia (Malliaris, 1997) e il trattato Sui costumi dei Turchi, manoscritto della Biblioteca nazionale centrale di Firenze, Magl. XXIV.128 (edito e tradotto in Alessandro Pini,2004, pp. 253-289). Quando nel 1740 Antonio Pini, figlio di Alessandro, viaggiò da Kostantiniyye a Firenze, portò con sé il trattato di suo padre. A Firenze lo donò ad Antonio Cocchi, medico e bibliofilo, la cui biblioteca è confluita nel fondoMagliabechiano della Nazionale di Firenze.
Fonti e Bibl.: Risposta di Jacopo Grandi, Medico e Professore di Notomia in Venezia et Accademico della Crusca A una Lettera del Sig. Dottor A. P. Medico dell’Ill.mo et Ecc.mo Sig.re Capitan delle Navi Alessandro Molino sopra alcune richieste intorno S. Maura e La Prevesa, Venezia 1686; C. Zeno, Articolo X, in Giornale de’ letterati d’Italia, XXVIII (1717), pp. 364-374; A.M. Malliaris, A. P.: anekdote perigraphe tes Peloponnesou (1703) (Descrizione del Peloponneso), Benetia 1997; A. P. viaggiatore in Egitto (1681-1683), a cura di R. Pintaudi, con la collaborazione di D. Baldi - A.R. Fantoni - M. Tesi (con A. Pini, De moribus Turcarum, a cura di D. Baldi), Il Cairo 2004.

MANZI, Pietro






Il fratello Pietro nacque a Civitavecchia il 3 nov. 1785 e seguì lo stesso corso di studi del M. a Montefiascone e a Roma. Anche lui fu indirizzato dal padre al commercio, con numerosi viaggi d'istruzione all'estero. Visitò la Francia e l'Olanda e si spinse fino in Grecia e Turchia. In un viaggio per mare fu catturato dai pirati barbareschi di Tunisi, e la famiglia dovette pagare un riscatto consistente in 50.000 carrette di pozzolana. Laureatosi in giurisprudenza, nel 1811, dopo un viaggio a Parigi, fu eletto uditore consigliere della corte d'appello dell'Impero. Pio VII, tornato sul trono, lo confermò uditore del Tribunale supremo. Nel 1819 sposò Angela Cocconari Fornari, di Tivoli, da cui ebbe otto figli. Tornata la normalità nello Stato della Chiesa, si dimise per dedicarsi agli studi.
La prima opera da lui pubblicata fu Il conquisto di Messico (Roma 1817), che narra la storia della scoperta e della conquista del Paese da parte dei conquistadores spagnoli. La critica non accolse favorevolmente il lavoro giudicandolo indigesto per il massiccio utilizzo di espressioni arcaiche e logore, retaggio della lettura degli scrittori del Trecento, e per la limitata esposizione. All'attacco che, come già era avvenuto con il fratello, gli fu mosso dalla Biblioteca italiana, Pietro replicò con durezza (Risposta di Pietro Manzi all'articolo terzo del numero XVIII della Biblioteca italiana di Milano, Roma 1817). Non diversa sorte ebbe la versione dal greco della Istoria dell'imperio dopo Marco (Roma 1821; poi Milano 1823) di Erodiano. In quest'occasione Pietro fu difeso da un concittadino, B. Blasi, con un articolo nel numero XXIII delle Effemeridi letterarie. Oltre a numerose traduzioni di Dionigi d'Alicarnasso, Erodiano, Tucidide e Senofonte, pubblicate nella collezione degli storici greci della milanese Sonzogno, nel 1826 Pietro diede alle stampe a Firenze il primo volume della Istoria della Rivoluzione di Francia dalla convocazione degli stati fino allo stabilimento della monarchia costituzionale, per cui fu insignito da Carlo X di Borbone con la Legion d'onore.
Appassionato di archeologia, commissario alle Belle Arti, effettuò numerosi scavi a Tarquinia, cui assistette Stendhal, in quegli anni console francese a Civitavecchia e suo amico. Tra le varie relazioni da lui scritte in proposito vanno ricordate la Lettera a lord Northampton sopra una tomba etrusca scoperta in Corneto l'anno 1831 (Roma 1831) e laLettera… a donna Teresa De Rossi Caetani… sopra le ultime scoperte fatte lungo il litorale dell'antica Etruria nello Stato pontificio (Prato 1836). Nel 1831 Gregorio XVI lo nominò presidente del Tribunale di commercio e criminale di Civitavecchia. Imprenditore di scarso successo, alla sua città Pietro dedicò l'opera Stato antico ed attuale del porto, città e provincia di Civitavecchia (ibid. 1837).
Pietro morì a Civitavecchia il 4 luglio 1839.
Fonti e Bibl.: G.G. De Rossi, Elogio di G. M., letto nell'Accademia archeologica il dì 29 marzo 1821, Venezia 1822; F. Zambrini, Cenni biografici intorno ai letterati illustri italiani, Faenza 1837, pp. 133 s.; A. Cuccioli, G. M., in Civitavecchia "Vedetta imperiale sul mare latino", Roma 1932, p. 122; V. Vitalini Sacconi, Gente, personaggi e tradizioni a Civitavecchia dal Seicento all'Ottocento, Roma 1982, I, p. 69; II, pp. 305 s.; O. Toti - E. Ciancarini, Storia di Civitavecchia, IV, Da Pio VII alla fine del governo pontificio, Ronciglione 2000, pp. 54 s., 58, 63, 69-74, 79, 82. Su Pietro: B. Blasi, Elogio del ch. avvocato Pietro Manzi da Civitavecchia cavaliere della Legione d'onore…, Civitavecchia 1839; V.L. Matteucci, Biografia del giureconsulto e letterato Pietro Manzi cavaliere della Legion d'onore, Roma 1846; Je deviens antiquaire en diable!: Io Stendhal, console a Civitavecchia e "cavatesori" 1831-1842 (catal.), a cura di S. Nardi, Tarquinia 1996, passimE. Ciancarini

MANZI, Guglielmo





. - Nacque a Civitavecchia il 25 ag. 1784 da Camillo e da Paola Antonia Bianchi.
La famiglia, originaria del Regno di Napoli, si era trasferita nella cittadina laziale alla fine del Seicento. Il padre Camillo, commerciante e banchiere, console di Spagna e Toscana, era assentista della flotta pontificia: questa sua attività portò la famiglia al crollo finanziario, che la crisi economica legata all'occupazione francese dello Stato rese ancor più rovinoso. Ciò non impedì ai genitori del M. di ospitare nel loro palazzo al centro della città personaggi di spicco come il generale L. Desaix in partenza per la spedizione napoleonica in Egitto.
Il M. iniziò gli studi nel seminario di Montefiascone e li completò a Roma presso il Collegio nuovo dei padri scolopi. L'intenzione di dedicarsi esclusivamente agli studi si scontrò con la ferma volontà del padre, che invece lo avviò al commercio. Per conoscere usi e costumi delle nazioni con le quali la famiglia era in rapporti d'affari, il M. viaggiò per l'Italia e per l'Europa, e dimorò a Livorno, Marsiglia e Barcellona. Tali viaggi gli consentirono di apprendere il francese e lo spagnolo e stimolarono in lui la passione per lo studio della storia e della geografia.
Tornato a Civitavecchia, ottenne l'incarico retribuito di viceconsole della Spagna, ma ciò non lo distolse dal suo proposito di dedicarsi totalmente agli studi letterari. Finalmente nel 1809 il M. si risolse a trasferirsi a Roma, dove ebbe la possibilità di approfondire gli studi di greco e latino. Iniziò allora a frequentare la Biblioteca apostolica Vaticana, dove rinvenne codici e scritti inediti di notevole interesse. Oltre che allo studio delle lingue classiche, la sua attenzione andò ai primi capolavori della lingua italiana, ed elesse a suoi modelli Dante per la poesia e G. Boccaccio per la prosa.
Nell'elogio funebre del M., G.G. De Rossi racconta che nell'ultimo periodo della dominazione francese il M. si era dedicato a un'opera, condotta sotto forma di dialoghi sul modello di P. Aretino, in cui denunciava il malgoverno delle autorità di occupazione: tuttavia, preoccupato da possibili repressioni e persecuzioni, aveva distrutto il manoscritto.
L'attività di filologo del M. ebbe inizio con la pubblicazione (Roma 1813) di una traduzione dell'Ecuba di Euripide dovuta a M. Bandello, scrittore da lui molto ammirato, integrata con una biografia del letterato e un'accurata descrizione del codice su cui aveva lavorato. Nel 1814 tradusse la Istoria romana di Cajo Vellejo Patercolo (ibid.), con aggiunta nella prefazione di un'analisi delle precedenti versioni.
Del lavoro del M. la critica apprezzò l'eleganza e la fedeltà all'originale, sebbene non mancasse qualche rilievo sulla pesantezza della lingua, troppo ispirata agli amati trecentisti.
Nel 1814 il M. recuperò fra gli scaffali della Biblioteca Vaticana e pubblicò il Del reggimento e de' costumi delle donne di Francesco da Barberino (ibid. 1815), di cui arricchì l'edizione con note sulla storia e i costumi femminili del Trecento, secolo al quale sarebbe tornato con il Discorso… sopra gli spettacoli, le feste e il lusso degl'Italiani nel secolo XIV (ibid. 1818).
Con la caduta di Napoleone e il ritorno di Pio VII a Roma (1814), il M. intensificò i suoi studi presso la Biblioteca Vaticana: sua aspirazione era quella di esservi assunto; dovette invece limitarsi a progettare edizioni di testi di lingua inediti e raccolte di opere disperse fra i diversi codici. Nel 1815 uscirono le Orazioni di Stefano Porcari, il ribelle repubblicano del XV secolo che aveva inseguito il sogno di rovesciare il potere papale.
Il M. tradusse dal latino la biografia di Porcari scritta da L.B. Alberti e fornì qualche notizia sulla famiglia; anche su questa sua fatica si appuntarono le critiche, stavolta con una recensione non firmata apparsa nell'XI numero dellaBiblioteca italiana in cui gli si attribuiva scarsa perizia nella lettura dei codici. Piccato, il M. rispose con un opuscolo di 23 pagine (Risposta di Guglielmo Manzi al primo articolo del numero undecimo della Biblioteca italiana di Milano, Malta 1816), che si apriva con alcuni versi danteschi sul "Cerbero […] con tre gole" (Inferno, canto VI). Un appunto a mano nella copia conservata alla Vaticana rivela che destinatari dei suoi versi erano G. Acerbi, direttore della rivista, e i collaboratori V. Monti, S. Breislak e P. Giordani, quest'ultimo ritenuto autore dell'articolo. Prese di qui le mosse una lunga e dura polemica fra i due letterati.
Sempre nel 1815 il M. trascrisse un altro inedito, gli Amori di Andrea Cappellano, ma la copia inviata a Firenze per la stampa andò perduta.
Altre ricerche gli permisero di reperire tra i codici della Vaticana appartenuti alla famiglia Della Rovere un Trattato della pittura di Lionardo da Vinci, più ricco di quelli conosciuti ed editi, il primo dei quali era apparso in Francia. Lo pubblicò a Roma nel 1817, insieme con una biografia di Leonardo, e De Rossi vi affiancò alcune note sull'opera. Il successivo lavoro del M. fu l'edizione del codice della Biblioteca Barberiniana 932 (poi Biblioteca apost. Vaticana, Barb. lat., 4047),Viaggio di Lionardo di Niccolò Frescobaldi fiorentino in Egitto ed in Terra Santa (Roma 1818), in cui incluse una dissertazione sul commercio degli italiani nel XIV secolo.
L'una e l'altra opera furono duramente attaccate nel fascicolo XXXI della Biblioteca italiana, con un articolo nuovamente attribuito a P. Giordani, al fianco del quale si schierò anche G. Leopardi, che scrisse nel 1817 cinque sonetti intitolati Sor Pecora fiorentino beccaio in cui si alludeva all'autore indicandolo come "il manzo"; i sonetti furono però pubblicati solo nel 1826, inseriti nel volumetto dei Versi. Anche stavolta il M. replicò con una Risposta al primo articolo del n. XXXI della così detta Biblioteca italiana (Firenze 1818).
Ciò malgrado, il M. ottenne la direzione della Biblioteca Barberini, ricca di codici e libri rarissimi e non ancora inventariata. Suo primo impegno fu la formazione di un catalogo dei codici. Il lavoro, solo abbozzato, si prefiggeva anche di esaminare i diversi codici e di confrontarli con altri simili conservati in altre biblioteche. Dalla Barberiniana estrasse Della compunzione del cuore: trattati due di s. Giovanni Grisostomo volgarizzati nel buon secolo della lingua toscana, che tradusse e arricchì di una dotta prefazione (Roma 1817).
In quegli anni il M. lavorò anche alla traduzione integrale delle opere di Luciano, di cui inizialmente pubblicò Il convito o I Lapiti (Roma 1815) e l'Encomio di Demostene (ibid. 1818). Un viaggio in Italia settentrionale compiuto nell'autunno del 1818 gli consentì, grazie all'incontro con numerosi letterati, di definire meglio i criteri di edizione di quella sua iniziativa destinata ad apparire a più riprese nel corso dell'Ottocento: con un'edizione di Losanna [recte Venezia] 1819, una di Capolago 1832-35 in sei volumi e, infine, una di Napoli nel 1884.
Di nuovo a Roma, riprese l'edizione seicentesca di alcuni scrittori greci di geografia avviata da L. Olstenio (L. Holste), suo predecessore alla Biblioteca Barberini. Insoddisfatto dalla qualità del lavoro della tipografia De Romanis che fino allora aveva stampato i suoi testi, decise di utilizzare solo tipografie del Nord. Curò e pubblicò una nuova traduzione di quattro epistole di Cicerone, fra cui Della vecchiezza, estratta da un codice inedito. Nella prefazione attaccò duramente coloro che in quegli anni dileggiavano chi si dedicava allo studio delle lingue classiche.
Nel 1819 visitò la Francia e passò l'autunno a Parigi, interessandosi alle leggi e ai costumi del Paese. Nell'estate del 1820 fu incaricato di compilare il catalogo della Biblioteca Colonna, che la famiglia intendeva vendere. Secondo De Rossi, i luoghi malsani dove era conservata la collezione Colonna influirono pesantemente sul suo stato di salute, già cagionevole. Nell'agosto del 1820 fece un viaggio in Inghilterra; si recò dapprima a Oxford, dove non trovò i letterati che si era prefisso di incontrare, quindi a Londra, dove soggiornò nove giorni. Il clima londinese mal si conciliava con le sue condizioni fisiche. Fece così ritorno a Roma in novembre dopo un faticoso attraversamento della Francia e in uno stato di salute definitivamente compromesso.
Il M. morì a Roma il 21 febbr. 1821.

HAGER, Giuseppe






. - Nacque a Milano il 30 apr. 1757, da Giuseppe e Marianna Tyher (Milano, Arch. storico civico,Rubrica del ruolo gen. di popol., vol. 11). All'età di 10 anni lasciò Milano per Vienna, per seguire i corsi dell'Akademie der orientalischen Sprachen, fondata nel 1754 per preparare personale diplomatico da destinare all'Oriente (Arch. di Stato di Milano, Albinaggio, p.a., b. 17). Conseguì poi il dottorato in teologia all'Università di Pavia il 27 nov. 1783 (Arch. di Stato di Pavia, UniversitàFacoltà di teologia, cart. 10) e prese gli ordini, entrando tra i frati minori riformati (nel 1786, dopo il loro scioglimento, riprese il nome secolare). Soggiornò quindi a Roma e presso la Propaganda Fide; fu forse in questo contesto che cominciò ad avvicinarsi allo studio della lingua cinese.
Etnologia e geografia sono gli argomenti delle sue prime opere: Schreiben aus Wien an Herrn Pallas…, Wien 1789; due differenti edizioni di Neue Beweise der Verwandtschaft der Hungarn mit den Lappländern, ibid. 1793 e 1794; una traduzione dall'inglese dei viaggi di M. Symes nel Sudest asiatico (Gesandtschaftreise nach dem Königreiche Ava…, Hamburg 1800).
Tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio degli anni Novanta l'H. viaggiò in Inghilterra, Francia e Spagna. Queste peregrinazioni furono occasione per una serie di resoconti di viaggio di taglio impressionistico. Oltre all'esposizione del viaggio a Madrid (Reise von Wien nach Madrid…, Berlin 1792), uscirono: Skizze einer Reise nach Berlin, Wien 1792; Reise von Warschau über Wien nach der Hauptstadt von Sicilien, Leipzig 1795; Gemälde von Palermo, Berlin 1799 (trad. inglese di M. Robinson, Picture of Palermo, London 1800; per la trad. italiana si veda, da ultimo: Impressioni da Palermo, a cura di M.T. Morreale, Palermo 1997).
I suoi interessi intanto si definivano e ampliavano, dalla filologia all'antiquaria alla linguistica. Quella dell'H., forse, sarebbe stata una vita da erudito senza risonanza particolare se non fosse stato coinvolto quasi casualmente nell'affaire Vella, che agitò per un decennio la comunità delle lettere e gli diede notorietà internazionale.
Negli anni Ottanta si era diffusa in Europa la notizia del ritrovamento, nella biblioteca martiniana di Palermo, di un manoscritto arabo risalente al dominio islamico in Sicilia, contenente importanti riferimenti a quel periodo. Una grave lacuna di fonti storiche veniva in questo modo colmata. A tradurre e pubblicare il manoscritto (Il Consiglio di Sicilia) aveva provveduto l'abate maltese Giuseppe Vella, con il patrocinio di A. Airoldi, arcivescovo di Palermo. Fin dall'inizio vi furono dubbi sull'attribuzione e la correttezza della traduzione, ma le difficoltà di esaminare la fonte e interessi convergenti di letterati e politici tennero in vita l'impostura - ché tale era - fino al principio degli anni Novanta. Anzi crebbero i ritrovamenti di manoscritti arabi da parte dell'instancabile Vella che, sull'onda del successo, diede alle stampe una nuova opera, il Consiglio d'Egitto, e dichiarò di aver ritrovato la traduzione araba dei libri di Tito Livio perduti dall'antichità. Nel 1794 l'H., durante un viaggio in Sicilia, entrò in contatto con i personaggi della vicenda ricavandone un'impressione negativa, che comunicò al re delle due Sicilie con una memoria ufficiale. Crescendo il rumore intorno all'operato di Vella, nel 1795 Ferdinando IV incaricò l'H. di una indagine ufficiale, che lo riportò in Sicilia e avviò la scoperta dell'impostura. Nel 1799 egli stampò una relazione sul caso che ebbe due edizioni contemporanee in tedesco e in francese (Nachricht von einer merkwürdigen literarischen Betrügerei… - Relation d'une insigne imposture littéraire…, Leipzig-Erlangen 1799; trad. italiana in Delle cose di Sicilia. Testi inediti o rari, a cura di L. Sciascia, III, Palermo 1984, pp. 280-311). La sua conoscenza dell'arabo, secondo Scinà non profonda, fu sufficiente a svelare l'inganno, anche se furono altri a portare a termine il lavoro da lui iniziato. Pur nella frammentarietà con cui ricostruiva i fatti, la Nachrichtebbe notevole risonanza in Europa ed ebbe recensioni molto favorevoli (A.-I. Silvestre de Sacy pubblicò un lungo articolo elogiativo sul Magasin encyclopédique, VI [1799], pp. 330-356). Come risultato della permanenza in Sicilia, durata all'incirca due anni (tra 1794 e 1796), l'H. pubblicò i due resoconti citati (Reise von Warschau…, e Gemälde…), che dipingevano con simpatia, ma piuttosto impressionisticamente, le condizioni dell'isola, le sue bellezze e la vita quotidiana. Soprattutto il secondo di tali resoconti (Gemälde) rende possibile ricostruire qualche tratto della sua personalità che le opere dotte non lasciano trasparire. Lo studioso, "vivace, niente riservato, e non saprei dire, se incauto o franco" (Scinà, p. 179), rivelava un carattere mondano non del tutto coerente con la condizione sacerdotale, che, del resto, non dichiarava. Dalle sue note traspare interesse per il gentil sesso, gli intrattenimenti, il canto, la musica, gli incontri galanti. Più in linea con la sua formazione teologica di stampo giansenistico e con le idee del tempo è la sua critica ai comportamenti del clero regolare, spesso occasione di scandalo per la comunità cristiana.
Chiusa la lunga parentesi siciliana, l'H. si dedicò allo studio del cinese, per il quale risiedette qualche tempo a Lipsia, Amburgo e Berlino. Alla fine del XVIII secolo, in Europa, quella lingua era studiata da pochi, quasi eccentrici, studiosi e i contatti diretti col paese limitati a viaggi di rari esploratori e missionari, o a missioni commerciali olandesi o inglesi. Fu forse per questo che, maturando in lui l'idea di dare alle stampe un dizionario cinese, l'H. si recò in Inghilterra, dove sperava che il progetto fosse ben accolto. Nel 1800 fu annunciato da Londra un breve Proposal for publishing by subscription…, a dictionary of Chinese language, cui seguì presto il principale lavoro di H. sulla lingua cinese, An explanation of the elementary characters of the Chinese (London 1801; rist. Menston 1972).
L'opera, saggio di ortografia e di storia culturale piuttosto che strumento di studio della lingua, contiene critiche alla tradizione europea di studi cinesi e una serie di ipotesi, alcune assai fantasiose, circa antichi legami e supposti prestiti linguistici e culturali tra Occidente e Cina. La fama di sapiente orientalista di cui l'H. godeva per la pubblicazione dellaNachricht non fu estranea alla diffusione internazionale delle due proposte, e An explanation ricevette calorose attenzioni nelle pagine del Magasin encyclopédique. Mentre l'impresa inglese faticava a trovare adeguati finanziamenti, il governo francese ritenne utile sostenere il progetto di un dizionario cinese-francese o cinese-latino, affidandolo a lui (Heidelberg, Universitätsbibliothek, Heidelberg Hs., 855.220). L'arrivo in Francia nel 1802 segna l'inizio di un periodo intenso, ma anche difficile della vita dell'Hager. Probabilmente le sue conoscenze di cinese non erano adeguate alla redazione di un dizionario, ma intervennero anche problemi tecnici legati alla realizzazione dei caratteri di stampa e alla difficoltà di utilizzare il pur ricchissimo fondo di caratteri cinesi conservato presso la Bibliothèque nationale di Parigi. Agli ostacoli incontrati non furono estranei tratti caratteriali di supponenza ed eccessiva autostima ma, anche, il disappunto di parte degli ambienti accademici nel vedere assegnato a uno straniero il compito di portare a termine un'impresa da cui avrebbe potuto trarre grande fama un francese.
Inizialmente l'H. ebbe buone accoglienze, godendo della stima di un arabista di grandissimo prestigio internazionale come A.-I. Silvestre de Sacy; ma presto anche costui cominciò ad avere dubbi sulle capacità del suo protetto (Aus dem Briefwechsel Friedrich Münters, lettera del 30 giugno 1802). Durante il soggiorno in Francia la pubblicazione di una serie di opere sulla lingua cinese (Monument de Yu, ou La plus ancienne inscription de la Chine…, Paris 1802; Description des médailles chinoises du Cabinet impérial de France…, ibid. 1805; Panthéon chinois, ou Parallèle entre le culte religieux des Grecs et celui des Chinois…, ibid. 1806) originò una vera e propria campagna denigratoria contro di lui, sostenuta dai due sinologi più in vista, l'italiano A. Montucci e il berlinese J. Klaproth, che lo H. aveva conosciuto durante il soggiorno berlinese del 1800.
Le tre opere citate, di valore diseguale, riproducono, a fianco della disamina dei caratteri ideografici del cinese rinvenuti su oggetti o iscrizioni monumentali, il tema classico della produzione hageriana: la parentela e i prestiti antichi tra la cultura occidentale e quella cinese. L'argomento è trattato per ipotesi non sempre inoppugnabili, mentre d'altro lato lo H. non risparmia critiche molto pesanti a predecessori e contemporanei. Il merito principale di tali opere, come riconoscerà J.-P.-A. Rémusat negli anni Venti dell'Ottocento, fu di avere attirato l'attenzione degli studiosi sulla necessità di riprendere lo studio delle fonti originali cinesi.
In Francia le critiche ai ritardi nella pubblicazione del dizionario divennero manifeste e, per tacitarle, fu avviata un'indagine governativa. I risultati furono sfavorevoli all'H., cui venne tolto l'incarico, e l'impresa fu abbandonata. Il 15 giugno 1806 egli fu nominato professore di lingue orientali presso l'Università di Pavia, cosicché rientrò in Italia dopo la lunga assenza. Insegnò fino al 1809, anno in cui la cattedra di lingue orientali fu soppressa in tutte le università del Regno d'Italia. Durante l'insegnamento l'H. si dedicò principalmente a opere di erudizione, alcune in forma di memorie e di prolusioni accademiche, su temi come l'attribuzione dell'invenzione della bussola o delle cifre arabiche. Anche attraverso questi lavori, spesso ebbe modo di polemizzare vivacemente con altri studiosi ricevendone in cambio critiche altrettanto aspre.
Nel 1810 l'H. ottenne un posto di sottobibliotecario nella Biblioteca di Brera (Arch. di Stato Milano, Studi, p.m., b. 67), che tenne anche dopo il ritorno degli Austriaci e fino alla morte. Nemmeno gli ultimi anni di vita furono esenti da problemi. I documenti di Brera testimoniano di una situazione tesa e ostile all'H., che al ritorno degli Austriaci venne sempre più emarginato (ibid., bb. 65, 66, 67). Della sua attività nella Biblioteca di Brera resta, manoscritto, un Catalogo de' libri cinesi della Biblioteca reale di Milano. Dal 1815 il prospetto degli studi dell'Università di Pavia recò di nuovo il suo nome come professore emerito di lingue orientali nella facoltà legale (Arch. di Stato di Pavia, UniversitàInventario dei registri, cart. 856); ma nei suoi ultimi anni lo studio del cinese sembrò divenire secondario rispetto alle ricerche erudite. Sull'argomento a lui particolarmente caro degli scambi antichi tra Occidente ed estremo Oriente pubblicò ancora alcune opere (ΛίθινοϚ ΠύϱγοϚ, ossia Forte di pietra…situato secondo i geografi greci… nella Scizia, e scoperto a' giorni nostri…, Milano 1816; Observations sur la ressemblance frappante qu'on découvre entre la langue des Russes et celle des Romains, Milan 1817).
L'H. morì a Milano il 27 giugno 1819.
Opere, oltre quelle citate: Der Sommer in Palermo, in Neue Berlinische Monatsschrift, 1799, pp. 425-434; De vár Hunnorum pariter atque Hungarorum disquisitio: adversus Paulum Beregszászy, Londini 1800; A dissertation on the newly discovered Babylonian inscriptions, London 1801; Ad prematurum Jornandis Vindicem responsio, Oxonii 1801;Recueil des termes turcs les plus nécessaires pour les militaires qui vont en Turquie, Pavia 1807; Memoria sulla bussola orientale, Pavia 1809 e 1810; Illustrazione d'uno zodiaco orientale del Cabinetto delle medaglie di sua maestà a Parigi, scoperto recentemente presso le sponde del Tigri, in vicinanza dell'antica Babilonia, Milano 1811; Memoria sulle cifre arabiche attribuite fin ai nostri giorni agli Indiani, ma inventate in un paese più remoto dell'India, ibid. 1813; Ricerche sopra una pietra preziosa della veste pontificale di Aaronne, ibid. 1814; Iscrizioni cinesi di Quàng-ceu, ossia della città chiamata volgarmente dagli europei Canton, ibid. 1816 (rist. 1818); Spiegazione di due rarissime medaglie cufiche della famiglia degli Ommiadi appartenenti al Museo Mainoni in Milano, ibid. 1818.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Milano, Studi, p.m., bb. 65, 66, 67; Albinaggio, p.a, b. 17; Arch. di Stato di Pavia, Università,Facoltà di teologia, cart. 10; Inventario dei registri, cart. 856; Milano, Arch. storico civico, Rubrica del ruolo generale di popolazione, vol. 11; Fondo stato civileEstratto dei registri parrocchiali di Milano per gli atti di morte, 1819, foglio L 46;Aus dem Briefwechsel Friedrich Münters… 1780-1830, a cura di O. Andreasen, Copenhagen-Leipzig 1946, pp. 171-174, 177-178; A. Mai, Epistolario [1799-1819], I, Firenze 1954, pp. 43, 76. Sulle fonti conservate negli archivi tedeschi: H. Walravens, Antonio Montucci (1762-1829), Lektor der italianischen Sprache, Jurist und gelehrter Sinologe - Joseph H. (1757-1819), Orientalist und Chinakundiger, Berlin 1992.
Numerosi articoli di e sullo H. in Magasin encyclopédique. Journal des sciences, des lettres et des arts, specialmente annate 1800-05; critiche mossegli da A. Montucci e J. Klaproth nella Jenaische allgemeine Literatur-Zeitung, 1801-04, e nella Allgemeine Literatur-Zeitung, 1802; altri interventi dello H. e A. Montucci in The Monthly Magazine, 1801. Vedi inoltre: M. Cesarotti, Relazioni scientifiche, in Id., Opere, XVIII, t. II, Pisa 1803, pp. 314-376; D. Azuni, Dissertation sur l'origine de la boussole, avec des additions, suivie d'une lettre du même auteur en réponse au mémoire de m. H., publié dernièrement, à Pavie, 2ª ed., Paris 1809; J. Klaproth, Zweites Schreiben an Herrn Sinologus Berolinensis, St. Petersburg 1810; Id., Leichenstein auf dem Grabe der chinesischen Gelehrsamkeit des Herrn Joseph H. der Hohen Schule zu Pavia, (Halle) 1811; J.-P.-A. Rémusat, Essai sur la langue et la littérature chinoise, Paris 1811; Id., Éléments de la grammaire chinoise, Paris 1822; Id., Mélanges asiatiques, ou Choix de morceaux de critique et de mémoires, I-II, Paris 1825-26; D. Scinà, Prospetto della storia letteraria di Sicilia nel secolo decimottavo, Palermo 1827, III, pp. 155-198 (rist., a cura di V. Titone, ibid. 1969); P. Sangiorgio, Cenni storici sulle due Università di Pavia e Milano, Milano 1831, p. 624; M. Amari,Storia dei Musulmani di Sicilia, I-III, Firenze 1854, ad ind.Memorie e documenti per la storia dell'Università di Pavia e degli uomini più illustri che vi insegnarono, Pavia 1878, pt. I, pp. 558-572; pt. III, pp. 154-161; B. Lagumina, Il falso codice arabo-siculo, in Archivio storico siciliano, V (1880), pp. 233-302; G. Pitrè, La vita in Palermo cento e più anni fa, I-II, Firenze 1944, passim; LSciascia, Il Consiglio d'Egitto, Torino 1963, passim; E. Di Carlo, Viaggiatori stranieri in Sicilia nei secoli 18° e 19°, Palermo 1964, pp. 192-200; L. Tresoldi, Viaggiatori tedeschi in Italia, 1452-1870, Roma 1975-77, I, p. 82; II, p. 93; A. Mozzillo, Viaggiatori stranieri nel Sud, Milano 1982 (con ampia rassegna bibliografica); H. Tuzet, Viaggiatori stranieri in Italia nel 18° secolo, Palermo 1988, pp. 158-160, 278-280 e passim; E.G. Fazio, Tedeschi in Sicilia nel Settecento. Un affresco siciliano attraverso le opere di alcuni viaggiatori tedeschi: da Urban Heckenstaller a Joseph H., inViaggiatori stranieri in Sicilia, a cura di E. Kanceff - R. Rampone, Genève s.d., pp. 81-107; S. Di Matteo, Viaggiatori stranieri in Sicilia dagli arabi alla seconda metà del XX secolo: repertorio, analisi, bibliografia, I-III, a cura di D. Grammatico - O. Cancila, Palermo 2000, ad vocem; G. Pitrè, Viaggiatori italiani e stranieri in Sicilia, a cura di A. Rigoli, Comiso 2000, I, t. 1, pp. 289-303; II, t. 2, pp. 356 s.; t. 3, pp. 15, 76.
Tra i repertori bio-bibliografici e le enciclopedie: G.C. Hamberger, Das Gelehrte Teutschland…, IX, Lemgo 1795, ad vocem; L.-G. Michaud, Biographie des hommes vivants, III, Paris 1817, p. 356; Biografia degli italiani viventi, Lugano 1818, pp. 289-293; J. Gorton, A general biographical Dictionary, London 1828, p. 4; J.-M. Quérard, La France littéraire…, IV, Paris 1830, p. 8; C.G. Kaiser, Index locupletissimus librorum…, III-V, Lipsiae 1835, ad vocemOesterreichische National-Encyklopädie, II, Wien 1835, p. 476; Biographie universelle ancienne et moderneSupplément, LXVI, Paris 1839, pp. 355-357; Meyer, Große Conversation-Lexicon für die gebildeten Stände, XX, Hilburghausen 1849, p. 721; C. von Wurzbach,Biographisches Lexikon des Kaiserthums Oesterreich, LX, pp. 196-199; J.-Ch. Brunet, Manuel du libraire et de l'amateur de livres, III, Paris 1862, p. 14; Nouvelle Biographie générale, XXIII, Paris 1877, pp. 95-97; W. Kosch, Das katholische Deutschland, I, Augsburg 1933, pp. 1278 s.

ORETTI (Rigosa), Marcello (Giovanni Antonio)




. – Nacque a Bologna il 27 dicembre 1714 da Francesco Antonio, docente di medicina presso lo Studio bolognese dal 1697 fino alla morte (1746), e da sua moglie Camilla Fabri, nipote di Marcello Malpighi.
Si formò nelle scuole dei gesuiti, proseguendo poi nello studio della filosofia e delle lingue straniere all’epoca più in voga, il francese e il tedesco. Nonostante ciò, i suoi manoscritti – nulla infatti è stato pubblicato lui vivente – rivelano una padronanza approssimativa dell’italiano, il che può spiegare perché non meriti una voce nelle Notizie degli scrittori bolognesi di Giovanni Fantuzzi, ma solo una fugace menzione incidentale (V, 1786, p. 155).
Ebbe due fratelli maggiori, Sicinio, di professione notaio (notaio fu anche il figlio Riniero), e Giuseppe, militare di carriera, e almeno una sorella, Gentile, che sposò Giacomo Arnoaldi, professore di diritto all’Università di Bologna dal 1744 alla morte. La famiglia, di antica, piccola nobiltà felsinea, aveva visto le proprie fortune andar progressivamente declinando lungo il corso del Cinque e Seicento. Solo nel 1722 al fidecommesso familiare, istituito nel 1492, si aggiunse quello dei beni di Ercole Rigosa, ultimo esponente di un’altra antica e nobile famiglia bolognese in estinzione, con l’impegno per i tre fratelli Oretti di adottarne il cognome, onde negli atti pubblici Marcello figura come Marcello Rigosa alias Oretti, oppure Oretti Rigosa.
A differenza dei fratelli, non sembra che Marcello abbia svolto un’attività professionale, vivendo di modeste rendite fondiarie e immobiliari. Tuttavia non risulta che si sia sposato o che abbia avuto figli, il che gli consentiva, nonostante i mezzi modesti, di viaggiare. Non sono documentati suoi viaggi fuori d’Italia, ma, soprattutto nella seconda metà degli anni Settanta visitò il paese dalla Lombardia al prediletto Veneto, alla Romagna, alla Toscana, a tutto lo Stato pontificio, fino a Napoli. Inoltre poté raccogliere una notevole biblioteca specializzata in campo storico-artistico e dedicarsi al collezionismo di reperti archeologici (la sua raccolta è descritta da Luigi Lanzi nel proprio taccuino del 1782: Firenze, Biblioteca della Galleria degli Uffizi, ms. 36/I, c. 98v), di monete, di grafica e di dipinti, ma anche di reperti naturalistici, specie minerali (gemme, pietre semipreziose, marmi, fossili) e conchiglie.
Tutte le raccolte sono descritte da Oretti stesso in alcuni dei suoi circa 60 manoscritti autografi conservati presso la Biblioteca comunale dell’Archiginnasio di Bologna (dove si trovano i manoscritti qui di seguito citati, se non altrimenti specificato; per le collezioni cfr. i mss. B 402-B405), cui giunsero nel 1872, compresi nell’acquisto della sterminata raccolta del principe Filippo Hercolani (1736-1810), che li aveva comprati poco dopo la morte di Oretti. Singoli volumi sparsi sono reperibili in altre biblioteche italiane, come la Biblioteca Estense di Modena.
I manoscritti furono compulsati e citati da vari studiosi del tardo Settecento, tra cui Giuseppe Piacenza, Pietro Zani, Luigi Lanzi – che li fece schedare all’amico padovano Giuseppe De Lazara – grazie alla generosità di Hercolani, che li spediva a chi volesse consultarli. Vivente l’autore, invece, solo Tommaso Temanza, Ireneo Affò e Carlo Bianconi ebbero a giovarsi di informazioni da lui fornite: le revisioni aggiornate della guida di Bologna del 1776 e del 1782, la cui curatela gli viene erroneamente assegnata dai contemporanei (Fantuzzi, 1786; Calindri, 1785, V, pp. 80 s.), sono opera del solo Bianconi, che, in risposta alle numerose censure riservate alla sua edizione del 1766, si rivolse a Oretti ottenendone informazioni aggiornate, ma soprattutto per poterne usare il nome come garanzia di attendibilità (la copia delle notizie fornite da Oretti è nel ms. B 30 e dimostra che sono state sostanzialmente disattese, eccetto una nota sulla sua collezione privata: [Bianconi], 1776, pp. 79 s. e [Id.], 1782, p. 83). Cionondimeno anche l’edizione del 1776 fu al centro di feroci polemiche.
Due sono le serie principali di manoscritti di Oretti: le Notizie de’ professori del disegno cioè pittori, scultori e architetti bolognesi e forestieri di sua scuola (mss. B 123-135 bis, con l’aggiunta del ms. B 122; le Notizie sono formate da agili schede biografiche in ordine cronologico, costituite da puri dati anagrafici, cronologici, biografici, da riferimenti bibliografici puntuali e, soprattutto, da lunghi cataloghi di opere) e l’Aggiunta di molti professori di pittura, scultura e architettura e di altri valorosi artefici del disegno non nominati dall’Orlandi nel suo Abecedario pittorico e più sicure notizie di quelli (mss. B 136-147). Entrambe le opere furono compilate a partire dall’inizio degli anni Sessanta e aggiornate fino quasi alla morte dell’autore.
L’epistolario superstite (mss. B 119-121) rivela l’intenzione di Oretti di giungere entro la fine degli anni Sessanta a una pubblicazione a stampa delle Notizie presso il rinomato editore Baglioni di Venezia, con dedica all’amico veronese Giacomo Muselli (Perini, 1983, pp. X, XXX, n. 48), vanificata nel 1769 da due circostanze negative concomitanti: la pubblicazione del terzo tomo della Felsina pittrice di Luigi Crespi (che obiettivamente riduceva l’interesse del lavoro di Marcello: non a caso, dopo questa data, i suoi sforzi si concentrarono sulla revisione dell’Abecedario orlandiano) e, soprattutto, il fallimento clamoroso del fratello Sicinio, costretto a fuggire all’estero (Modena) per sottrarsi ai creditori e alla legge. Poiché gli editori veneziani pubblicavano opere inedite solo a pagamento o per sottoscrizione, le ristrettezze imposte a tutti i congiunti dal fallimento di Sicinio preclusero a Marcello la possibilità di far stampare i propri lavori. Forse non per caso nello stesso 1769 Oretti firmò una perizia relativa allo studio del pittore Sebastiano Gamma e ne vendette le stampe al celebre cantante d’opera Francesco Carattoli, all’epoca a Vienna. Non riuscì invece a vendergli le proprie collezioni storico-artistiche: solo nel 1782 cedette al bresciano Ercole Luzzago la collezione di modelli in gesso, provenienti dallo studio del pittore Antonio Longhi, in parte comprato nel 1752 e per il resto ereditato nel 1757. Nel ms. B104 (parte I, c. n.n.) Oretti dichiara di aver ricevuto in eredità anche lo studio di un pittore di paesaggio, Giovan Francesco Colonna (forse però, anche in questo caso una parte dello studio era stata comprata vivente l’artista). Pur non essendo un marchand-amateur – condannava anzi severamente l’alienazione a collezionisti privati di opere esposte al pubblico, anche se nel suo epistolario si trovano suggerimenti al conte di Firmian per l’acquisto di statue da tombe monumentali di chiese milanesi quasi in rovina – inventariò studi di artisti o di piccoli collezionisti bolognesi. L’erudito Baldassarre Carrati nell’aprile 1771 gli fece valutare la propria raccolta, rimanendo però insoddisfatto di quotazioni ritenute troppo basse (copie di questi inventari sono nel ms. B 113).
La competenza di Oretti in materia storico-artistica, confermata dalle aggregazioni all’Accademia Clementina di Bologna il 13 gennaio 1764, a quella di Verona il 10 giugno 1769 e, nell’ottobre 1774, alla prestigiosa Accademia del disegno di Firenze, è il risultato della sua educazione da gentiluomo, che comprendeva l’apprendimento dei rudimenti del disegno (anche il padre era stato pittore dilettante, allievo di Carlo Buffagnotti e dei Viani, amico di artisti di vaglia come i pittori Giovan Gioseffo dal Sole e Felice Torelli, nonché lo scultore Gioseffo Mazza). In un frammento autobiografico databile tra il 1769 e il 1774 (Perini, 1983, p. III) si vantava di aver studiato con Ludovico Mattioli e con Donato Creti, di aver realizzato alcune incisioni, riconoscibili per una marca costituita da una O cui è sottoscritta una M, e alcuni dipinti, conservati in case di sua proprietà ora scomparse, oppure di amici e parenti acquisiti.
Pur attribuendosi dipinti non meglio identificati nella chiesa dei Filippini a Verona, usò le sue nozioni artistiche soprattutto per realizzare copie di quadri altrui, raramente a fini commerciali, talora per farne doni ad amici (regalò al suo amico e corrispondente veronese Giacomo Muselli, numismatico celeberrimo, una copia del Martirio di s. Giorgio di Paolo Veronese), ma soprattutto per propria utilità e studio, come dimostrano alcune raccolte, in parte perdute, di cui una contenente riproduzioni ad acquerello delle antichità di Ravenna; una riproducente le medaglie di uomini e donne illustri, bolognesi e non, della collezione di Giacomo Biancani Tazzi; un’altra (tuttora esistente) riproducente i dipinti della villa Salaroli, ora Monsignori, a Calamosco (in gran parte scialbati o distrutti, onde il manoscritto orettiano ivi conservato riveste notevole valore documentario), e infine un libro di 80 fogli dedicato alla riproduzione di pale d’altare, prevalentemente ma non esclusivamente bolognesi. Questo progetto, ispirato ad analoghe sillogi grafiche venete, anticipa progetti bolognesi simili di Luigi Crespi e dei Gandolfi: non sembra perciò casuale che, tra i vari lasciti testamentari di Oretti (Archivio di Stato di Bologna, Fondo notarile, notaio Francesco Masini, anno 1787, 27 gennaio), ben due siano destinati ai figli del celebre mercante Giuseppe Antonio Buratti, finanziatore di vari progetti (non tutti realizzati) di riproduzione a stampa di cicli pittorici bolognesi, per es. quello di palazzo Poggi, curato da Francesco Zanotti nel 1756.
Morì a Bologna il 28 gennaio 1787 in seguito a una breve malattia.
Un campo in cui Oretti intervenne con frequenza, denunciando abusi vari e distruzioni (mss. B 30 e B 106), fu quello della tutela delle opere d’arte: in merito ostentava opinioni molto nette e conservatrici. In particolare si distingueva per un apprezzamento acritico della patina, derivato, forse, dalla sua formazione con Creti. Ci sono tracce di suoi interventi occasionali di restauro (o piuttosto pulitura) su singoli dipinti: per esempio, nel settembre 1766, quattro anni prima che un editto legatizio imponesse che a Bologna i restauri fossero affidati esclusivamente ai professori di pittura dell’Accademia Clementina, pulì la tavola, che all’epoca recava la firma apocrifa di Vitale da Bologna, rimossa solo nel secolo scorso, affidatagli dall’abate di S. Procolo con la Madonna in trono con angeli e ritratto del donatore Giovanni di Piacenza di Simone de’ Crocefissi ora nella Pinacoteca nazionale di Bologna, ivi giunta con le requisizioni napoleoniche.
Pietro Zani (1823, p. 158) lo ricorda come «architetto di giardini», forse grazie alla sistemazione del giardino del palazzino di famiglia al Porto Naviglio, in cui commissionò allo scultore Antonio Schiassi le statue decorative deiContinenti e delle Stagioni, il che lascia supporre una concezione attardata di giardino all’italiana o alla francese, non all’inglese. Nonostante la sua cultura figurativa appaia orientata in senso tardo-barocco, l’amicizia con il pittore Jacopo Alessandro Calvi dimostra come la particolare temperie bolognese, comunque segnata da un generico indirizzo classicista, consentisse di accogliere anche, senza sconvolgimenti, le più aggiornate sollecitazioni neoclassiche.
La fama di Oretti è confermata dal qualificato giro di corrispondenti, comprendente naturalisti come Pietro Schilling, eruditi come il roveretano Clementino Vannetti, il bresciano Luigi Arici, i lombardi Francesco Maria Gallarati, Giuseppe Allegranza e Bernardino Ferrari, numismatici come Pietro Borghesi, Vincenzo Bellini, Giacomo Muselli, Domenico Ronchi e Gabriello Lancillotto Castelli di Torremuzza o, tra i bolognesi, Guido Antonio Zanetti e Giovanni Grisostomo Trombelli, nonché Giacomo Biancani Tazzi, che nel 1788 redasse l’inventario legale della sua collezione di monete antiche e l’elenco dei suoi manoscritti autografi.
Le sue collezioni sono tutte disperse: quella storico-artistica comprendeva, nella parte grafica, circa 2000 disegni di architettura, prevalentemente di architetti bolognesi (per es. Bartolomeo Provagli e Alfonso Torreggiani), inclusi progetti per edifici pubblici importanti, come porta Galliera. Quanto ai dipinti, oltre ai ritratti degli antenati (opera di artisti bolognesi come il Bagnacavallo, Lorenzo Sabatini, Bartolomeo Passerotti, Giovanni Maria Viani, Felice Torelli e la moglie Lucia, o, tra gli scultori, Gioseffo Mazza), vanno ricordati alcuni primitivi (Lanzi registra negli appunti unaMadonna col Bambino di Lippo Dalmasio: Firenze, Biblioteca della Galleria degli Uffizi, ms 36/I, c. 1v), molti pittori del Cinquecento bolognese (Amico Aspertini, Biagio Pupini, Prospero Fontana, Orazio Samacchini, Denys Calvaert, Bartolomeo Cesi), pochi Carracci (un non meglio specificato Ritratto virile attribuito ad Annibale, un Autoritratto a tutto tondo in creta di Agostino, solo testa, e una statuetta di Susanna, sempre di terracotta, attribuita ad Annibale), unaMadonna col Bambino di Giacomo Cavedoni sovente prestata per essere esposta negli Addobbi cittadini, nonché diversi pezzi della scuola di Guido Reni (Simone Cantarini, Elisabetta Sirani, Giovan Giacomo Sementi e Giuliano Dinarelli), e qualche Leonello Spada e Domenico Maria Canuti, senza contare svariati quadri di generi minori, opera dei vari amici del padre. Non si sa del resto quanto provenga dalla divisione ereditaria dei beni paterni nel 1746 (manca l’inventario) e quanto sia stato invece da lui acquistato.
Per quel che riguarda i suoi manoscritti, oltre alle serie già ricordate delle Notizie e delle Aggiunte, quelli attualmente più compulsati riguardano le collezioni nobiliari cittadine (B 104), quelle borghesi (B 109: è significativo che le collezioni sue e del fratello Sicinio siano ricordate qui, e non nel B 104), le raccolte di dipinti conservate nelle ville di campagna o nelle chiese del contado bolognese (B 110). Molto studiati sono quelli relativi ai viaggi, comprendenti tanto appunti frettolosamente presi in situ, quanto compilazioni ed estratti di guide, biografie e pubblicazioni a stampa predisposte in preparazione dei viaggi medesimi (B 96bis relativo alla Lombardia, comprensiva dell’Emilia; B 97, relativo a Venezia e al Veneto, comprese naturalmente Bergamo e Brescia, ma anche Trento e Rovereto; B 107 relativo alla Toscana granducale e non, poiché include Lucca; B 165II relativo al Regno di Napoli, e a varie parti dello Stato pontificio, specialmente Romagna, Marche e Roma; B 291, integralmente dedicato allo Stato pontificio, con particolare riguardo, oltre che a Roma, all’Umbria, alla Romagna, al Ferrarese e in parte alle Marche). Parti di questi manoscritti sono state rese note a stampa nella seconda metà del Novecento, per lo più in pubblicazioni locali o periodiche. Il ms B 111, che raccoglie le marche usate dai pittori e ricavate, a Bologna come nel resto d’Italia, dalla rilevazione diretta di Oretti, più che da compilazioni libresche, è pubblicato in anastatica. Interessanti sono anche il ms B 105 (relativo ai quadri esposti a Bologna per gli addobbi tra il 1759 e il 1786) e il B 106 (una sorta di cronaca storico-artistica cittadina), nonché il B 97, che raccoglie autobiografie di artisti.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Bologna, Fondo notarile, notai Sicinio Oretti e Riniero Oretti; notaio Pier Francesco Borgognoni (1746); notaio Francesco Masini (1787); Firenze, Biblioteca della Galleria degli Uffizi, ms 36/I (L. Lanzi,Viaggio del 1782) cc. 1v, 98v; ms 39 (contiene anche gli estratti di De Lazara usati da Lanzi nell’edizione definitiva dellaStoria pittorica, Bassano 1809); Modena, Biblioteca Estense, Fondo manoscritti Campori, γ U 3, 27 (in collaborazione con Sicinio); [C. Bianconi], Pitture, scolture e architetture delle chiese, luoghi pubblici, palazzi e case della città di Bologna e suoi sobborghi, Bologna 1776, pp. 79 s.; S. Calindri, Dizionario corografico, georgico, orittologico, storico etc. della Italia, Bologna 1781-85, III, pp. 214 s.; V, pp. 80 s.; [C. Bianconi], Pitture, scolture e architetture delle chiese, luoghi pubblici, palazzi e case della città di Bologna e suoi sobborghi, Bologna 1782, p. 83; G. Fantuzzi, Notizie degli scrittori bolognesi, V, Bologna 1786, p. 155; P. Zani, Enciclopedia metodica critico-ragionata delle belle arti, parte I, XIV, Parma 1823, p. 158; G. Giordani, Ragguaglio bibliografico attorno a M. O. e suoi manoscritti autografi, in Almanacco statistico bolognese per l’anno 1836, Bologna 1835, pp. 136-157 (anche in fascicolo autonomo: Bologna 1835); S. Mazzetti,Repertorio di tutti i professori antichi e moderni della famosa Università e del celebre Istituto delle scienze di Bologna,Bologna 1847, p. 227, n. 2276; Inventari dei manoscritti delle biblioteche d’Italia, LIII, Firenze 1933; LXXIX, ibid. 1954; LXXXII, ibid. 1957, passim; G. Zucchini, Abusi a Bologna nel secolo XVIII in materia di quadri, in L’Archiginnasio, XLIV-XLV (1949-50), pp. 45-87; G. Roversi, Le opere d’arte dell’appartamento abbaziale di S. Bernardo secondo due stime di M. O. (1773-1782), in Strenna storica bolognese, 1967, pp. 384-418; G. Cuppini - A.M. Matteucci, Ville del Bolognese, Bologna 1969, pp. 107-113, 351-352; A. Conti, Storia del restauro e della conservazione delle opere d’arte, Milano s.d. [ma 1975 circa], p. 227; G. Perini, La biblioteca di M. O., in Annali della Scuola normale superiore di Pisa, classe di lettere e filosofia, s. 3, IX (1979), 2, pp. 791-826; M. O. e il patrimonio artistico del contado bolognese: Bologna, Biblioteca comunale, ms. B. 110. Indice ragionato, a cura di D. Biagi Maino, Bologna 1981; R. Landi, Indice degli artisti compresi nell’opera manoscritta di M. O.“Notizie de’ professori del disegno”, in L’Archiginnasio, LXXVIII (1983), pp. 103-236; G. Perini, Nota biografica, in M. Oretti, Raccolta di alcune marche e sottoscrizioni praticate da pittori e scultori, Firenze 1983, pp. III-XLI;M. O.e il patrimonio artistico privato bolognese: Bologna, Biblioteca comunale, Ms. B. 104. Indice, a cura di E. Calbi - D. Scaglietti Kelescian, Bologna 1984; G. Perini, Luigi Crespi inedito,in Il Carrobbio, XI (1985), pp. 235-261; V. Curzi, Il metodo di lavoro di M. O., in Notizie da Palazzo Albani, XV (1986), 1, pp. 77-83; G. Perini, Strutture e funzione delle mostre d’arte a Bologna nel Sei e Settecento, in Accademia Clementina. Atti e Memorie, XXVI (1990), pp. 293-355; P. Carnevali,Dal manoscritto B 107 di M. O.: alcune carte su Firenze, in Annali. Fondazione di studi di storia dell’arte Roberto Longhi, III (1996), pp. 99-157; Pitture in diverse città: M. O. e le Marche del Settecento, a cura di A. Iacobini - M. Massa - C. Prete, Firenze 2002 (in particolare i contributi di R. Varese, G. Perini, V. Curzi, C. Barletta, C. Prete, A. Cerboni Baiardi); C. Prete,Il patrimonio artistico privato marchigiano nelle carte di M. O., in Cultura nell’età delle Legazioni, a cura di F. Cazzola - R. Varese, Firenze 2005, pp. 701-742; E. Rossoni, Nuovi studi sulla collezione di stampe della Pinacoteca nazionale di Bologna. L’acquisto di alcune stampe della collezione di M. O.,in Aperto. Bollettino del Gabinetto dei disegni e delle stampe della Pinacoteca nazionale di Bologna, maggio 2008 (www.aperto.gdspinacotecabo.it); C. Castellari, Le pitture della città d’Imola descritte da M. O. nell’anno 1777, Imola 2009.

AVOGADRO (Avogadri), Achille Maria







. - Nato a Novara l'8 sett. 1694, fu ricevuto nel noviziato della Compagnia di Gesù il 1º ott. 1711.
Chiese al generale, con una lettera del 16 giugno 1725, di recarsi missionario; nel 1726 si imbarcò a Lisbona per il Maranhâo e il Gran Pará, ove si dimostrò intrepido ed efficace nell'apostolato. Nel 1730, quando pronunciò la professione solenne di quattro voti, si trovava in una "aldeida" delle missioni di Abacaxis, all'interno dell'Amazzonia. Il suo stato di servizio nel 1751 registrava i seguenti dati: dopo cinque anni di insegnamento letterario nei collegi, fu per dieci anni operaio nelle missioni indigene, per tredici esaminatore e cappellano ufficiale delle truppe di "resgates no sertâo", comandate da Lourenço Belfort: ufficio di grande responsabilità che lo induceva a continui trasferimenti da luogo a luogo, con viaggi pieni di disagio e di pericoli, soprattutto nelle zone del Rio Negro e del Rio Branco. Risulta che dalla seconda metà del 1745 ai primi mesi del 1746 egli ebbe ad assegnare svariate "resgates" nell'"Arraial" di Nostra Signora della Penha de França e Sant'Anna, fra popolazioni indigene delle quali si sono perdute ormai le tracce. Dal 1752 al 1757 agì nella missione di Martigurá, poi nel collegio di Pará e in quello di Maranhâo. Quivi morì il 4 febbr. 1758.
Negli scritti di un suo confratello, Johâo Francisco Lisboa (Obras, Lisboa 1901, II, pp. 608 e ss.), sono pubblicati alcuni preziosi Registros do Indios do Rio Negro,datati nel 1738, preparati dall'Avogadro.
Bibl.: M. Rodrigues, Succinta relazione del Padre A. M. Avogadri, Novara 1762; S. Leite, História da Companhia de Jesus no Brasil, III, Rio de Janeiro 1949, pp. 380-383; VIII, ibid. 1950, p. 69.

BASSETTI, Apollonio






. - Figlio di Ippolito, cocchiere del cardinale Giovan Carlo de' Medici, nacque a Firenze il 13 giugno 1631. Fin da fanciullo mostrò una discreta attitudine agli studi, guadagnandosi così la benevolenza del cardinale, il quale lo avviò alla carriera ecclesiastica, gli procurò un canonicato nella basilica di S. Lorenzo e lo tenne presso di sé come segretario dal 1654 al 1662. Alla morte del cardinale, il granduca Ferdinando II assegnò il B. al servizio del principe ereditario Cosimo, del quale il giovane canonico fu nei primi anni segretario, consigliere e direttore di coscienza. Il giovane Cosimo, non avvilito ancora dalla catastrofica esperienza del matrimonio francese e dalla mania religiosa, destinate a renderlo più tardi ludibrio dei sudditi e favola delle corti, seguendo docilmente la volontà del padre fece lunghi viaggi d'istruzione in Italia e all'estero, in "incognito", come si diceva, in realtà con un seguito da quaranta a sessantasei persone. Il B., meno che nell'ultimo viaggio del 1668-69, fu sempre con lui. Del viaggio del 1664 a Ferrara, Mantova, Venezia e Milano, fu diligente relatore d'ufficio nei giornalieri dispacci che inviava al balì Gondi. Altrettanto fece due anni dopo, durante la permanenza di Cosimo a Genova. Dal 22 ottobre 1667 al 12 maggio 1668 il B. fu in Belgio, in Olanda e in Germania.
Il contatto con i paesi più evoluti d'Europa, la lunga consuetudine della vita di corte, l'anùcizia con personalità illustri del suo tempo, come Antonio Magliabechi, Lorenzo Magalotti, Enrico de Noris, Paolo Segneri, dovettero largamente contribuire a maturare lo spirito di quest'uomo dotto, raffinato, facondo. La carica di segretario della Cifra, assunta all'avvento del nuovo granduca Cosimo III ed esercitata poi per tutta la vita, assorbì il più del suo tempo e delle sue energie. Ciò tuttavia non gli impedì di coltivare, con sensibilità notevolmente superiore a quella di un semplice dilettmte, la passione per le iscrizioni antiche, la nuirusmatica, l'antiquariato in genere. In collaborazione con Francesco Riccardi e Ferdinando della Rena raccolse un vero museo che dopo la sua morte passò alla Galleria degli Uffizi. Numerose lettere da lui dirette al Magláabechi, bibliotecario granducale (Biblioteca nazionale centrale di Firenze,Magliab. CI. VIII, 425), testimoniano il tuo interesse per la cultura europea del tempo, mentre sappiamo di una sua lunga lettera, diretta al Magalotti, la cui risposta è pubblicata nell'epistolario di quest'ultimo, che disserta sul problema della lingua e sulla necessità di una rielaborazione in base a più moderni criteri del vocabolario della Crusca. Nonostante gli attacchi del malevolo Benedetto Menzini, che nella satira XI (Le satire di B. M., Leida MDCCLIX, pp. 186, 189), dipingendo il clima ipocrita e bigotto della corte di Cosimo III, lo gratifica dei nomignoli di "Striglia" e "Segretario Fottivento", non v'e dubbio che egli fu il migliore, se non l'unico, buon servitore di quel men che mediocre sovrano sul quale tuttavia poté esercitare ben scarsa influenza. Morendo il 23 apr. 1699 lasciò erede dei propri beni il principe, perché ne disponesse a favore del capitolo di S. Lorenzo.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Firenze, Mediceo del Principato, ff. 1522-1530, 6286, 6381, 6384, 6386, 6387, 6388; L. Magalotti, Delle lettere familiari, Firenze 1769, II, vip. 66-70; R. Galluzzi, Istoria del Gran Ducato di Toscana sotto il governo della Casa Medici, VII, Livorno 1781, pp. 251 s.; P. N. Cianfogni, Memorie istoriche della basilica di S. Lorenzo in Firenze, a cura di D. Manni, Firenze 1804, pp. 244 s.; D. Moreni, Memorie istoriche della basilica di S. Lorenzo in Firenze, Firenze 1817, I, p. 309; II, pp. 49, 63, 65, 73, 218, 325; G. Conti, Firenze dai Medici ai Lorena, Firenze 1909, p. 282; P. Tacchi-Venturi, Lettere inedite di Paolo SegneriCosimo III, Giuseppe Agnelli intorno alla condanna dell'opera segneriana "La concordia", in Arch. stor. ital., s. 5, XXXI (1903), pp. 127-165.

BRAZOLO MILIZIA, Paolo






. - Nato a Padova il 16 ott. 1709 dal conte Pietro e da Eleonora Grompo, ricevette un'educazione ricca e varia. Iniziato agli studi letterari dal gesuita Sanseverini, studiò filosofia e matematica col monaco olivetano Rampinelli e quindi si dedicò alla scienza idraulica sotto la guida dell'ab. Giuseppe Succi e del celebre Giovanni Poleni. Ma decisivo nella sua vita fu Pincontro con l'illustre grecista Domenico Lazzarini, professore di letteratura greca nell'università padovana: con questo infatti il B. scoprì la sua vocazione e iniziò a studiare appassionatamente le letterature classiche, laureandosi nel frattempo in giurisprudenza.
In gioventù viaggiò molto in Italia, visitando le città principali e soggiornando lungamente a Roma ed a Firenze; suo compagno di viaggi fu il conte di Tarocca, gran maestro dell'imperatore Carlo VI, che si affezionò al B. e voleva condurlo con sé alla corte di Vienna. Ciò nonostante, il B. scelse di tornare a Padova e di continuare in patria gli studi, occupandosi contemporaneamente delle sue numerose proprietà terriere. Ottimo conoscitore delle lingue greca e latina, s'intendeva anche di ebraico ed era appassionato studioso di tutte le arti; oltre la poesia, amava la pittura, la scultura e soprattutto la musica. Tuttavia la fama del B. è dovuta alla sua sapienza di grecista e all'amore entusiastico ed esclusivo che ebbe per Omero, quasi un'idolatria, che suscitò spesso l'ironia e la satira dei contemporanei.
Il Cesarotti per esempio scrisse di lui: "Certo era il più trasportato e feroce omerico che mai fosse al mondo. Egli avrebbe assai volentieri fondato un Ordine di Cavalleria militare, a gloria d'Omero, e sarebbe ito in capo al mondo per battersi in campo chiuso con chiunque non giurava, che la sua Dulcinea letteraria era il modello archetipo della perfezione"; e il Foscolo, riportando il giudizio di chi lo aveva conosciuto: "campione della greca letteratura, che voleva ristaurarla in tutto e per tutto in Italia; pari all'ingegnoso cittadino della Mancia, ristauratore dell'errante cavalleria".
Gran parte della sua vita e dei suoi studi il B. li dedicò alla traduzione dei poemi omerici: per ben undici volte (racconta il Foscolo) condusse a termine l'opera senza mai esserne soddisfatto, cosicché, "quantunque le citate traduzioni a tutti che le udirono leggere, fossero piaciute, non soddisfecero al suo purgato giudizio e perciò le diede alle fiamme" (G. Gennari); di questo suo lavoro si è conservata manoscritta solo la traduzione in versi dello "Scudo d'Achille" (Iliade,XVIII), che aveva letto all'Accademia dei Ricovrati; il 29 genn. 1732 pronunciò anche un Discorso Accademico in onore di S. Francesco di Sales, pure pervenutoci manoscritto.
Durante la sua vita il B. pubblicò soltanto Alcune poesie e una prosa di P. B. a S. E. Angelo di Lauro Quirini (Padova 1757), dov'è tra l'altro il volgarizzamento in versi dell'idillio Ilratto d'Europa di Mosco, e Le opere e i giorni di Esiodo da lui tradotti (Padova 1765). Alcune sue rime sono nel secondo volume della Nuova raccolta di operette italiane in prosa ed in verso inedite e rare, pubblicato alcuni anni dopo la sua morte (Treviso 1785).
Il B. partecipò attivamente alla vita culturale padovana, e oltre che dell'Accademia dei Ricovrati fece parte anche di quella Delia; fu amico dei più importanti letterati del tempo: il Lazzarini, l'Algarotti (due sue lettere all'amico sono edite nel vol. XIV delle Opere di questo, Venezia 1796), Giovanni Antonio Volpi, Antonio Conti, Giuseppe Bartoli, Giovanni Brunacci e i musicisti Giuseppe Tartini, Francesco Antonio Vallotti. Del Cesarotti fu prima consigliere e maestro e poi avversario, quando per l'Ossian, "men grande di Omero, l'Omero nostrale fu nominato". Nel 1752 aveva sposato Anna Cartuso dalla quale ebbe due figli: Pietro e Prosdocimo.
Il B., "uomo di caldissima fantasia e che per nonnulla dava in furore", convintosi "d'esser incorso nella disgrazia del Principato per aver sparlato del governo" (Gennari), il 27 luglio 1769 si uccise nei pressi della sua villa di Tribano; aveva accanto un Omero.
Fonti e Bibl.: Le opere manoscritte sono conservate a Padova nella biblioteca di Emilio Scapin (uno zibaldone o registro del B. che contiene tra l'altro il Discorso in onore di San Francesco di Sales, una Nota dei conti dal 1759 al 1761 e il suoTestamento del 1769) e nella Biblioteca del Seminario, tra le carte dell'ab. Giuseppe Gennari (le traduzioni del canto XVIII dell'Iliade e di alcune anacreontiche, e un poemetto satirico contro un metto traduttore di Anacreonte).
Notizie e giudizi sul B. in: G. M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia, II, 4, Brescia 1763, pp. 2040 s.; M. Cesarotti, Discorso preliminare [1772], in Opere, II, Poesie di Ossian antico Poeta celtico, Pisa 1801, pp. 1-19; Nuovo dizionario istorico, III, Bassano 1797, p. 346; U. Foscolo, Sulla traduz. dell'"Odissea" [1820], in Opere (ed. naz.), VII, pp. 197-230; G. Vedova,Biografia degliscrittori padovani, I, Padova 1832, pp. 157-159; G. A. Moschini, Della letter. venez. del secolo XVIII, I, Venezia 1836, pp. 46 s.; G. Dandolo, La caduta della Repubblica di Venezia...,Appendice, Venezia 1857, p. 30; G. Gennari,Notizie intorno a P. B., Padova 1880; G. Natali, Il Settecento, Milano 1955, pp. 510, 555; G. Biasuz, L'omerista P. B. e la brigata dei suoi amici, in Mem. dell'Accad. patavina di scienze lettere ed arti, classe di scienze morali, lettere ed arti, LXXVII (1964-1965), pp. 509-527, con un'appendice di inediti.